Intervento di Alberto Nessi all’inaugurazione del 4 giugno 2016

Mostra “Scelte inedite per Massimo Cavalli”

Signore e signori, cari amici, l’opera d’arte andrebbe vissuta con il proprio sguardo personale, con l’adesione piena del proprio spirito, senza intermediari. Ma io non ho voluto sottrarmi alla richiesta, fattami da Selim qualche settimana fa, di dire qualcosa su Massimo Cavalli: perché a questo peintre-graveur (come ama definirsi con un’espressione che ci fa entrare subito nella sua personalità artistica che predilige il versante francese-mediterraneo rispetto a quello nordico), a questo artista mi lega un’amicizia di vecchia data. Dunque ho accettato volentieri di essere qui a presentare questa mostra che nasce all’insegna di scelte inedite, fatte tra i dipinti eseguiti tra il 1982 e il 2006: segno che la vitalità dell’artista, nato a Locarno nel 1930, non si è spenta, anzi, si è accesa di nuovi bagliori nel nuovo millennio.

Ho accettato volentieri l’invito, anche se dire qualcosa di nuovo su Cavalli è difficile, dopo i numerosi testi su di lui, scritti da importanti storici dell’arte. Ma la sua opera ha suscitato l’interesse anche dei poeti, non solo dei critici (ricorderò qui solo il nome di un poeta che operava in sintonia con l’artista: Giorgio Orelli). Dunque ho accettato di parlare semplicemente come poeta. Le opere, scelte da Selim che noi tutti ringraziamo per la sua attenzione verso un’arte che non segue le mode, le opere sono lì da vedere e ci stupiscono per la loro energia e il loro mistero e non hanno bisogno di commenti.

Mi sono sempre chiesto che cosa hanno in comune il pittore e il poeta, nella modernità, quando si esprimono l’uno in versi, l’altro in segni e colori. Hanno in comune forse il desiderio di mettere ordine nel caos del mondo; di trasmetterci le vibrazioni del loro mondo interiore, che porta sempre tracce di esperienze vissute; di raccontare le storie dei loro brividi vitali e delle loro ombre; di tentare di far vivere ciò che è destinato a morire. Ma, mentre la parola con il suo significante lega il poeta al significato – il quale, anche se trascinato dall’immaginazione, non potrà mai perdere la sua concretezza – il segno e il colore possono muoversi in modo più autonomo, secondo un loro ritmo che astrae dal significato. O meglio, astrae apparentemente: perché dietro il colore e il segno c’è sempre in agguato il reale, che fa sentire la sua urgenza di verità.

Andando a rileggere le cose scritte in passato, ho trovato affermazioni che mi sembrano valide anche oggi, per l’opera di Massimo Cavalli. E mi permetto di citare un mio testo apparso nel lontano 1987, quindi quasi trent’anni fa, in occasione di un’esposizione al Museo Epper di Ascona: in quel cataloghino bilingue, tradotto in tedesco da Gerardo Zanetti, si legge: “Più che dalle macerate ombre di Lombardia, Cavalli è attratto dai fermenti dell’Europa: e la sobria modernità della sua pittura si rifà, oltre che ai paradigmi di un linguaggio che si è lasciato alle spalle definitivamente l’Ottocento, alla chiarezza degli antichi”. E più sotto, per definire i tratti caratteristici dell’artista, scrivevo “la forza coniugata con la grazia, la delicatezza con la rabbia, l’inquietudine con la lucidità, l’energia con la misura. La fiamma con la pietra. L’artista fa scaturire vivi segni da un’emotività temperata dalla ragione”.

Dunque in Cavalli ci sono delle costanti che attraversano il tempo: anche se (ecco un altro “anche se” …) negli ultimi anni l’artista ha ridotto la gamma cromatica e la sua pittura, dove spesso troviamo il colore nero, appare più rastremata.

Nel catalogo che accompagna la mostra, curato da Selim Abdullah, (e vi ricordo che il ricavato dalla vendita del catalogo verrà devoluto all’organizzazione umanitaria “Medici senza frontiere”), leggo la seguente frase scritta da Virgilio Gilardoni quasi sessant’anni fa. “Non è stagione di idillio, la nostra, per chi abbia coscienza del drammatico dissidio tra la natura delle cose e la condizione odierna dell’uomo, intuendone le fatali radici storiche morali e culturali.” Anche queste parole mi sembrano d’attualità e ci dovrebbero ricordare che le parole dell’artista, come quelle dell’intellettuale, sono sempre meno ascoltate nell’odierna confusione cacofonica.

Per tornare al rapporto tra poesia e pittura, vorrei stasera, a conclusione del mio intervento leggere qualche mio testo poetico che vorrebbe dialogare con il linguaggio dell’artista.

Da A. Nessi, Massimo Cavalli. Una ruvida grazia (Torino, Franco Masoero, 1995, risp. pp. 17, 29.)

A Massimo Cavalli, dalla montagna (Montcervier, 4 gennaio 1994)

L’alfabeto dei rami nella neve
la lingua silenziosa ch’è racchiusa
tra balza e balza lascia, credo, una traccia
nei segni che tu incidi. Oscura una fiamma
ci prende quando il giorno brancola
in cerca di risposte: tu la porti
nel ritmo del respiro, negli sterpi
vivi sotto la punta: forse
la linfa che ti corre nelle vene
là si rifugia con la stessa forza
che fa tesi i rami. Ora che annotta
la neve accoglie l’ombra della valle
in conche segrete: in quell’intrico
tu trovi la misura che ti appaga.

* * *

Rametto di corniolo

Il rametto fiorito del corniolo
l’ho messo sopra la scala: ci guarda,
quando il mattino saliamo verso il chiaro
del soggiorno, col suo giallo verdino.
L’hai colto nei boschi del Poncione,
mi hai detto, dove cerchi una luce
che aiuti a vivere: ma io
credo soltanto al vento che mi agita
alla forma fragile del corimbo
dove il giorno declinando depone
le prime ombre tra le vene sottili.

Da A. Nessi, Erbe per Massimo (Pubblicate per la prima volta nel Catalogo della Mostra ora in corso a Palazzo Pollini di Mendrisio (4 giugno-18 luglio 2016), Scelte inedite per Massimo Cavalli, a c. di Selim Abdullah, Lugano, Edizioni San Lorenzo, 2016, pp. 13-15.)

La parola

Freccia d’amore scoccata
dall’arco della nostra solitudine
l’inseguo senza trovarla, scompare
nelle lame dello sfalcio quotidiano
fra le polveri sottili, si cela
nello svelamento dell’alba che balugina
dalla festuca dei prati, la ventolana
la coda di topo, lo sparto pungente,
la costa fiorita di peonie selvatiche
sopra il colubro in agguato, si perde
nel viaggio dell’urodelo le notti di pioggia
dal nero del sottobosco fino al ruscello;
e ancora l’aspetto nascosto nell’erba
la parola che non tradisca la sua genesi.

* * *

Canzonetta dell’erba brusca

Sempre mi segue il sangue
– crespo velo di sposa –
dell’erba brusca, schiuma
sull’onde dell’aprile

rosato che spumeggia
fresco, festosamente
a vincere la morte
versato nel bicchiere

mi fa perder la testa
sui dorsi del crinale
che il mattino marezza,
quell’acne giovanile.

* * *

Filo d’erba

Mi chiedi perché non scrivo
con un filo d’erba. Eh, avere
la leggerezza dell’avena
che si muove nel vento, muovere l’ala
tra roveti e detriti come la gazza
che dai rami sfrasca ghignando,
vincere il dolore,
aprire lo sguardo su un altrove…